Una storia di ieri, una storia di oggi: le due “riqualificazioni” torinesi

Chi a sa nen simulé, a sa nen regné.
(Chi non sa simulare, non sa regnare)
Detto popolare piemontese

“Prima riqualificazione“: 1864 – 1894, da città amministrativa a città industriale.

Tra Piazza Castello e Piazza San Carlo si contavano a decine i morti ammazzati, la maggior parte manifestanti con ancora in mano il bastone, mentre i feriti erano nell’ordine delle centinaia da entrambe le parti: erano le giornate del 21 e 22 settembre 1864 e a scontrarsi era una massa di popolani da una parte, il regio esercito e le sue baionette dall’altra. I fatti passeranno frettolosamente alla memoria come la rivolta per il cambio di capitale del neonato regnetto italico da Torino a Firenze. Come spesso accade, i significati dei fatti storici sono lasciati alle fonti giornalistiche o alle memorie degli onorati intellettuali ed è difficile non vederci il potere di costruzione del passato da parte di consortili d’interesse. In questo caso la rivolta assunse il significato più comodo di espressione del patriottismo sabaudo, piccato per il tradimento dell’opera civilizzatrice torinese nel resto d’Italia – ohibò. Che questo fosse il reale significato dello sdegno dell’indotto della corte reale, dei mercanti borghesi che le ruotavano attorno, dei variegati burocrati dei Savoia che avevano investito in Piemonte, o degli intellettuali liberali torinesi, lo si può lasciare all’immaginazione. Ciò che invece si sa è che a sollevarsi in quei due giorni furono per lo più gli strati popolari della cittadinanza coi loro bastoni e probabilmente con tutt’altro profondo movente.

Torino, nonostante – o proprio per – l’opera di unificazione nazionale era una città che stava entrando a grandi passi in una crisi nera, con tanto di popolazione in decrescita: le pecunie del nuovo stato erano state utilizzate quasi interamente per mandare avanti le campagne belliche e gli opifici militari (Fabbrica d’armi, Arsenale, Laboratorio di precisione, Fonderia) o per sostenere gli istituti privati di credito, a rischio fallimento per gli investimenti nell’edilizia. Niente del passato che stupisca, guerra e finanza muovono da sempre i cicli dello Stato. La realtà produttiva cittadina era stata fino ad allora florida, soprattutto in campo alimentare e tessile, ma perché basata sui consumi della città amministrativa e regale (cioccolate di lusso, conserve, seta).

I poveracci invece da tempo avevano preso casa fuori dalle mura, nei suburbi, alcuni erano impiegati nella manifattura, nelle fetide concerie lungo la Dora, nel piccolo commercio, altri in lavori d’occasione o nella sussistenza contadina ancora presente in città. Non si sentivano neanche torinesi, tanto che recarsi nella città dentro alle mura era ormai “’nduma a Turin“. Tuttavia il cambio di capitale investì anche la loro vita e non la presero bene. Una certa promessa di miglioramento era arrivata anche nei bassi fondi, anzi era con questa che per anni si era giustificata la richiesta di sacrifici, dazi e gabelle. Delle grandiose opere pubbliche che avrebbero trasformato Torino in una capitale degna di questo nome e arricchito tutta la popolazione si videro solo le ferrovie, il che dovette sembrare ai più l’ennesima beffa visto quale lusso rappresentavano in quei primi anni. Alla spiegazione di una certa disillusione della plebaglia c’è da aggiungere che erano decenni riottosi e la rabbia sempre latente non aspettava altro che trovare il suo ennesimo vettore, soprattutto se girava la voce che i carabinieri erano stati schierati in linea preventiva davanti ai ministeri di Piazza Castello. Quello che dunque pensavano veramente costoro che tumultuavano in quel settembre non saranno le cronache borghesi a raccontarlo. Tantomeno se si pensa che questa storia l’anno dopo, a capitale ormai spostata, prese una piega che oggi potremmo considerare quasi scontata, con il sindaco che istituì una commissione con a capo l’ingegner Sommelier con l’obiettivo di cambiare faccia a Torino, ormai senza vocazione, e attirare investimenti in grado di trasformarla in città d’industria moderna. Il piano fu quello di svendere a possibili pionieri d’impresa i tanti poveracci come manodopera disponibile e a bassissimo costo, assicurare ai loro stabilimenti spese ridotte grazie all’energia idraulica, distribuire aree di insediamento a scelta e con canoni fiscali agevolati a chi avesse innovative macchine di produzione e decidesse di portarle in città. L’appello a investire promuovendo ampie condizioni di sfruttamento fu riprodotto in uno stampato, tradotto anche in inglese, francese, tedesco e spagnolo, pubblicato sui maggiori quotidiani europei e americani.

La mano d’opera a Torino sarà tenuta su basi molto ragionevoli e più moderate di quelle della maggior parte degli altri gran centri di popolazione: gli operai meccanici da 3 a 5 lire al giorno quelli delle manifatture da 1,50 a 2,50; le operaie nei diversi mestieri da 1,25 a 1,75; i ragazzi da 40 a 80 centesimi.

Fu un’azione senz’altro efficace per lorsignori, amministratori e neoarrivati investitori, tanto che nei decenni successivi soprattutto la zone di San Paolo, dell’odierno tribunale e delle “barriere” si riempirono di fabbriche. I più grandi stabilimenti presero spesso il posto di vecchie cascine o di isolati di architettura spontanea, ne decretarono lo sgombero e la demolizione. Lungi dall’essere un futuro agognato, la trasformazione della vocazione della città in industriale fu per migliaia di poveri l’inizio di un nuovo tipo di dominio destinato ad attraversare i decenni: quello sulla condizione operaia.

“Seconda riqualificazione”: 1992-2022, da città industriale a… città industriale.

Fin dall’inizio degli anni ’80 del XX secolo appare chiaro come i padroni della manifattura stiano progressivamente disinvestendo nella produzione torinese: la forte contrazione della Fiat, del suo indotto e nell’insieme la dismissione del comparto siderurgico sono forse i più evidenti segni di cedimento della struttura occupazionale e più in generale dell’icona di ville industrielle. Nei dieci anni in cui lo smantellamento produttivo assume in città il suo carattere più aggressivo vengono chiusi decine di stabilimenti, tra cui, nel 1982, quello del Lingotto, evento che ha rappresentato più che la fine di un’epoca, la fine di un’idea.

A partire dalla campagna elettorale del futuro sindaco Valentino Castellani nel ’92, le amministrazioni di centro-sinistra si sono adoperate per agevolare la buona uscita di molti signori industriali. Attraverso la formazione di coalizioni di interessi territoriali, la classe dirigente si è messa a caccia di un nuovo ruolo per la città da mettere a valore, trovando infine nella retorica del passaggio dalla produzione materiale a quella immateriale di cultura e servizi un buon pacchetto da vendere. Un miglioramento e una sfida – dicevano – tacendo che il prezzo di questo “cambiamento” l’avrebbero pagato le masse senza più salario, reddito, né prospettive. E così, con l’aiuto del Politecnico, è sbucato un insieme composito di studi statistici, sociologici e demografici che dalla fine dei 90s verranno sistematizzati in veri e propri piani strategici comunali atti a decidere quale nuova identità urbana costruire sulle macerie di quella industriale, quale coltre luccicante sulla povertà dilagante della città-fabbrica in crisi. Un nuovo habitus, quindi, che a partire dal patrimonio immobiliare dismesso dell’industria e dalle bellezze barocche del centro, facesse emergere quanto il capoluogo sabaudo potesse reinvestirsi in cultura, servizi, grandi eventi. Le Olimpiadi invernali del 2006 sono state in questo senso una grande occasione per presentare al mercato internazionale una merce rinnovata, la città di Torino.

Che i piani strategici susseguitesi nel nuovo millennio abbiano offerto uno specchio realistico di una situazione urbana sempre più impoverita è ingenuo pensarlo, così come credere che le fabbriche a Torino siano sparite tutte d’improvviso e non in un lungo corso di lacrime e sangue mai finito per i proletari, tra licenziamenti, condizioni lavorative sempre peggiori, prese per i fondelli sindacali. Nonostante le patinate strategie di “internazionalizzazione” della Fiat (poi FCA, ora Stellantis), le delocalizzazioni di molte altre manifatture pesanti portate a termine tra il 2008 e il 2012, gli investimenti nell’automazione, la riorganizzazione aziendale sempre più “snella”, la Torino operaia non è lo spettro di un passato da rimuovere in fretta, tutt’oggi in più di 100.000 sudano per un salario da fame nell’industria. Una realtà completamente taciuta nel discorso pubblico, quasi fosse poco dignitoso rispetto a quell’allure di città della cultura e della giovane imprenditoria fai-da-te che hanno cercato di costruire negli ultimi trent’anni, quasi che a Torino ci fossero più giovani stronzi startupper nel “food” che bocche per mangiare.

Dopo un lustro pentastellato e due anni pandemici, se si guardano i siti istituzionali e quelli della Compagnia di Sanpaolo è di nuovo tutta una cartolina questa mirabolante città “politecnica, policentrica e pirotecnica“. Turisti pronti a stracciarsi le vesti pur di raggiungerla, rampanti imprenditori e incubatori di idee geniali intorno al mondo universitario, frullatori di eventi tutti-i-gusti, intrattenimento, innovazione, fuochi d’artificio in pieno giorno! Se è vero che certi settori produttivi si sono rimpinguati anche troppo (e con loro nuove forme di sfruttamento lavorativo e gerarchizzazione dello spazio), essi sono così sovrarappresentati nell’immaginario egemone, che sono in molti a pensare, a sproposito, che il capitalismo torinese si regga interamente sulla cosiddetta “gentrification”.

La realtà è che a Torino da trent’anni i governanti non riescono a trovare degli efficaci e stabili motori propulsivi, gli orizzonti della governance hanno il fiato sempre più corto, vuoi per le difficoltà apportate dal connubio declino locale / federalismo economico, vuoi per la competizione tra città nel cercare investitori e abitanti intraprendenti, vuoi perché la crisi torinese si incunea in quella generale e nazionale. Negli ultimi due anni, complice la pandemia, gli abitanti sono scesi addirittura di 60.000 unità, i prezzi di vendita immobiliare in continuo calo, gli affitti in ascesa libera, l’occupazione ai minimi storici, il welfare locale al tracollo. In sintesi, i poveri sono sempre di più e sempre più poveri.

Per rimpolpare un po’ i conti generali, il neoeletto sindaco Lorusso prosegue la svendita massiccia del patrimonio edilizio pubblico con aste che vanno quasi sempre deserte, come quella dell’ex Manifattura Tabacchi. I proventi, quando e se arrivano, servono a coprire gli interessi del buco finanziario, senza delibera d’impegno, e finiscono dunque direttamente nelle tasche della principale padrona della città: Intesa Sanpaolo. It’s capitalism, baby!

Che le casse del comune abbiano raggiunto i 5 miliardi di debito, tanto che quello schifoso di Draghi ha dovuto presenziare questa primavera alla chiusura del bilancio, la dice lunga: “A Torino disoccupazione e povertà sono quelli di una città del Sud” – lamentava il banchiere in quell’occasione. Di fronte a questo stato di cose, sono tanti i sistemi di clientele che ruotano attorno agli uffici di Palazzo di Città e, vista la nota penuria, nei corridoi v’è grande apprensione per la crisi di governo che mette a rischio i fondi del PNRR. Nell’attesa, per placare l’ansia e rispettare il “Patto per Torino” firmato con Roma, il Comune ha già pronto un rimedio, aumentare le multe.

Così, arrivati a questo 2022, dopo tre decenni di tentativi di “trasformazione del volto di Torino” e di sconvolgimenti globali, ecco che l’industria, in versione 4.0 o in qualunque salsa, non sembra più da schifare. Nel Piano Strategico per il 2023 si afferma che:

“Torino sta attraversando una fase, non semplice e neanche breve, di transizione rivolta a definire un modello di sviluppo urbano in grado di sostituire, o almeno completare, la tradizionale specializzazione industriale.”

Insomma una roba vale l’altra, industria sì, industria no, industria forse. Se non può essere sostituita – scrivono – che almeno si vada fino in fondo.

Facendo finta per un attimo che questa parte del mondo non sia sull’orlo di una frattura imminente che scombussolerà qualunque piano di governance e che non saranno finanziamenti occasionali a porvi rimedio, specie quelli internazionali dati a strozzo, ecco che i principali progetti economici e infrastrutturali che i padroni di Torino (nel solito fetido partenariato pubblico-privato) stanno portando avanti sono tutti per lo più asset tradizionali e industriali.

  • Parco della Salute, L’accesso alla sanità pubblica, per fare un esempio lampante, è diventato pressoché impossibile e il progetto “Parco della Salute”, che salvo continui intoppi dovrebbe nascere nell’area dell’ex-Avio dietro al Lingotto. Presentato come un polo d’eccellenza, sembra essere più un progetto immobiliare che ospedaliero, oltre a segnare l’ulteriore riduzione a concentrazione degli accessi ai servizi medici. I costi continuano a lievitare e i 380 milioni previsti potrebbero non essere sufficienti neppure a far partire i lavori.
  • Linea metropolitana 2, un miliardo dal governo centrale per l’opera infrastrutturale di mobilità che attraverserà la periferia nord, fino a Piazza Rebaudengo con annessi progetti immobiliari e aree commerciali.
  • Ferrovie, dei 190 miliardi del piano industriale di Ferrovie dello stato, 12 andranno al Piemonte, sopratutto per l’alta-velocità e le nuove fermate del servizio ferroviario metropolitano del capoluogo (con le stazioni San Luigi-Orbassano, San Paolo, Borgata Quaglia, Ferriera, Dora e Zappata).
  • Polo Biotecnologie di via Nizza, 30mila metri quadri in più (per 500 ricercatori) le ricerche in campo genetico e di diagnosi molecolare per la sanità dei super ricchi del futuro.
  • Ufficio NATO per l’Europa (Progetto DIANA), Torino è stata scelta come prima sede europea degli acceleratori di startup nel campo della sicurezza, in pratica il rafforzamento di alcuni settori del comparto automotive in crisi, già fortemente implicati nella produzione bellica, traghettati ancora nell’industria 4.0 della guerra.
  • Polo Areospazio, oltre un miliardo di investimenti a cui probabilmente se ne aggiungeranno 12 dal PNRR. «Qui vogliamo fare sviluppo industriale» sottolinea Marco Zoff, Managing director Divisione Velivoli di Leonardo che indica le principali linee di sviluppo del progetto: ricerca e innovazione, in collaborazione stretta con le Pmi e le start up, formazione, con Politecnico e Its Aerospazio e meccatronica. In pratica, anche qui, ricerca e realizzazione di macchine da guerra.
  • MTCC, Ovvero Manufacturing Technology Competence Center, un hub di servizi innovativi in cui Università, Politecnico, imprese, start up e centri formativi fanno quadrato. In pratica rivitalizzare la produzione manifatturiera dandole nomi accativanti. Il progetto è all’interno dell’accordo PRRI per la riconversione delle aree industriali dismesse.

Se si usa uno sguardo di lungo corso è lampante che i piani presentati talvolta come inesorabili da parte di chi governa e sfrutta non sono altro che tentativi, peraltro passibili di essere modificati per i loro interessi piuttosto rapidamente, non certo destini ineludibili. I modi per sabotarli sono, come sempre, da scoprire.

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