Una storia di ieri, una storia di oggi: gasisti, anti-gasisti e teleriscaldati

Il gas ha terminato i suoi affanni,
ed è uscito dalle nebbie glorioso come il sole.
(Silvio Pellico)

Torino è stata la seconda città al mondo, dopo Parigi nel 1667, ad aver avuto un servizio di illuminazione pubblica. Dall’anno 1690, fiaccole a olio vennero installate a ogni isolato – costi di manutenzione a carico del comune, costi dell’olio al padrone di casa. Così, a ogni tramonto, in venti minuti quattrocentocinquanta lumi venivano accesi da venticinque garzoni. All’inizio le luci erano fioche, ma i produttori di fiaccole migliorarono sempre di più il loro prodotto fino a ottenere qualcosa che sconvolse, nel bene o nel male, il legame millenario tra notte e oscurità. A cavallo tra ‘700 e ‘800, però, l’olio entrò in competizione con una nuova tecnologia, quella del gas. Erano gli anni in cui vennero costruiti i gasometri prima intorno a Porta Nuova e poi a Vanchiglia-Aurora, dove se ne vedono ancora due, dietro al Campus Luigi Einaudi.

Il gas certo illuminava molto, ma puzzava, a volte esplodeva, e inoltre necessitava di tecnici professionisti del mestiere e di una infrastruttura, come si direbbe oggi, in grado anche per la prima volta di quantificarne il consumo, attribuirgli un prezzo di mercato, controllarne il furto. Fatto sta che intorno ai due metodi d’illuminazione a Torino scoppiò uno scontro tra gasisti e anti-gasisti. I primi erano in maniera netta appartenenti alla borghesia nascente, quella delle grandi botteghe e degli investimenti in finanza, che premeva per il progresso e il susseguirsi delle tecnologie di cui andava alla ricerca nelle altre capitali europee, la stessa che avrebbe qualche decennio dopo avviato il “genio” industriale cittadino. I secondi erano per lo più gli strati popolari della società, tra i quali molti cenciosi impegnati nelle fasi di lavorazione e trattamento delle fiaccole a olio. Questi ultimi gestivano un mondo di processi di sussistenza artigianale diffusa, a differenza del gas che veniva già trattato con un grado di alienazione tipico dell’organizzazione del lavoro successiva.

Chissà, forse tra gli anti-gasisti c’era chi intravedeva nella nuova fonte di illuminazione un allontanamento dalla capacità di gestione delle cose che riguardavano la propria vita. Chissà, forse la lotta per non scomparire aveva prodotto in loro una riflessione sulle trasformazioni epocali e le loro conseguenze. Comunque sia, pare che lo scontro tra le fazioni sia stato a dir poco acceso, con tanto di sabotaggi dei gasometri che andavano moltiplicandosi nella zona nord della città. Non si sa se tra i dotti socialisti dell’epoca ci fosse chi tacciava gli anti-gasisti di portare avanti lotte di retroguardia, di essere nemici di un progresso che avrebbe liberato l’umanità dalle tenebre e dall’unto delle fiaccole, e che avrebbe prodotto un esercito industriale da scagliare verso il sol dell’avvenire. Tuttavia il finale lo sappiamo: attraverso una schiacciante intesa tra scienza, tecnica ed economia, le istanze del gas ebbero la meglio. E poi, poco dopo, arrivò l’elettricità.

Non viene difficile accostare quanto appena ricordato con avvenimenti freschissimi, o forse sarebbe meglio dire caldissimi. Nell’area metropolitana di Torino, “città più teleriscaldata d’Italia e una delle metropoli più teleriscaldate d’Europa” secondo Iren, ci sono 650.000 persone che vivono oggi in alloggi allacciati alla rete del teleriscaldamento, dipendenti da un sistema ipercentralizzato che fornisce calore sottoprodotto da centrali elettriche, naturalmente di “ultima generazione”. Se per trent’anni questo è stato per le amministrazioni vanto di una gestione circolare e tendente all’autosufficienza “rinnovabile” e ovviamente “green”, in opposizione alle soluzioni termoautonome ritenute di questi tempi obsolete (le tradizionali caldaie a gas che l’Unione Europea punta a mettere fuori legge al più presto), negli ultimi anni le bollette degli utenti sono salite del 250%, come riporta un comitato di lotta formatosi da qualche mese. Bollette che avrebbero dovuto essere forfettarie e che invece vanno a incidere pesantemente sui redditi, già irrisori, di centinaia di migliaia di abitanti, tra i quali i residenti in case di edilizia pubblica. La spiegazione dell’ente gestore Iren sembra essere che il prezzo dell’energia prodotta, comunque sia, è da adeguare al prezzo del gas, quasi a voler tracciare una sorta di gas-standard inventato di sana pianta dall’azienda torinese. Quando poi si aggiungono, a quella dell’Iren, speculazioni ulteriori come quelle della storica cooperativa rossa Di Vittorio, che ha in mano quasi tutta l’edilizia convenzionata di Torino, le spese salgono anche di 200 euro ogni mese.

E mentre avviene tutto ciò, mentre c’è chi rischia il pignoramento della casa perché non può pagare le bollette, il presidente di Iren – sicuramente a insaputa del brav’uomo, come sempre avviene in questi casi – si è visto aumentato lo stipendio annuo a 400.000 euro. Naturalmente questo adeguamento al costo della vita dello stipendio di un manager non inciderà sull’inflazione, come del resto i 5 miliardi di utili e dividendi con cui Iren, i cui principali azionisti sono i Comuni di Torino, Genova, Parma, Piacenza e Reggio Emilia, ha chiuso il bilancio.

E d’altra parte quali siano le normative di adeguamento delle retribuzioni di queste quattro sanguisughe e attraverso quali accordi la torta dei profitti venga spartita da imprenditori e politici poco importa, perché quello che è talmente chiaro da non poter essere negato è che i denari per pagare le conseguenze delle scelte belliche e delle speculazioni finanziarie sui prezzi delle risorse vengono sborsati dai tanti, per alcuni fin troppi, che sono responsabili di vivere in un alloggio popolare con 600 euro al mese.

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