Una storia di ieri, una storia di oggi: a Saluzzo l’unico bracciante buono è il bracciante morto

Rosse “da baciare”, snack e da bere. A Saluzzo è il tempo delle mele 4.0.
«Abbiamo oltre 100 varietà. Qui spunteranno le Ferrari della frutta».

(Nota impresa agricola locale)

In principio erano i montanari, scesi dalle vallate alpine alla ricerca di una sussistenza nei campi dei “padrùn”. Fin dagli anni Venti del secolo scorso, con l’infrastrutturazione dei trasporti e la meccanizzazione dei mezzi di produzione, si afferma nelle campagne saluzzesi la coltivazione specializzata del melo, del pero e del pesco come componente significativa della sempre più intensiva frutticoltura piemontese. Negli anni Sessanta è ormai evidente la trasformazione di un mondo agricolo storicamente basato sull’autoconsumo in una economia di mercato. Nonostante le continue innovazioni tecnologiche del dopoguerra, che comportano la radicale espansione degli ettari a coltura e la loro progressiva concentrazione nelle mani di chi ha capitale da investire, il proprietario agrario che vuole arricchirsi non riesce però a fare a meno dei salariati e dei “giornalieri permanenti” per raccogliere la frutta, soprattutto durante le cicliche punte stagionali. Così, “muntagnin”, “terùn” o “studènt”, le braccia nei campi di Saluzzo servono a migliaia – negli anni Settanta si parla di 4.000 lavoratori – ma non devono parlare, tantomeno avanzare pretese. 

Nel 1978 con la cosiddetta “Operazione Pesche” a regia Democrazia Proletaria e Lotta Continua, sono proprio gli studenti accampati ai margini della città a scaldarsi contro lo sfruttamento diffuso, il lavoro nero e le condizioni abitative insalubri dei braccianti che, quando gli va bene, vengono ospitati nelle stalle delle cascine. Come si legge in una lettera aperta indirizzata al Sindaco di Saluzzo, “il problema si pone oggi e si ripresenterà fino a che esisterà lavoro stagionale nella nostra zona”. Gli stagionali occupano le sedi dei Comuni di Saluzzo e Lagnasco, la sede della Coldiretti e bloccano l’entrata e uscita di merci dai frigo. Gli interessi in ballo sono grossi, i 70-80s sono gli anni in cui i padroni con più capitale hanno iniziato a consociarsi – è del 1970 la costituzione dell’Associazione tra Produttori Ortofrutticoli Piemontesi – fioccano i finanziamenti, si affina la ricerca e si sperimentano nuove tecnologie di produzione, si innestano varietà esotiche – vengono lanciati l’actinidia e i piccoli frutti -, si stringono accordi di filiera forti di una nuova organizzazione produttiva e logistica, i fatturati si moltiplicano. 

Sono però anche anni caldi, benché nella campagna Granda le strutture di potere paiano immutabili e intoccabili. Se ci sono di mezzo gli studenti “furestè” che hanno imparato dagli operai a bloccare i flussi della merce, la protesta va messa a tacere prima che arrechi un danno economico. Prima i fascisti mandati dai “cascinè” sparano per intimidire, poi la polizia manganella per difendere i padroni. “Per la prima volta si vede la Celere con i carabinieri impegnati massicciamente e in assetto di guerra. I disoccupati pur non avendo opposto resistenza vengono spintonati a calci e manganellate dal 5° reparto Celere di Torino agli ordini del vice-questore Viola. (…) Gli stagionali trasferitasi a Saluzzo formano una manifestazione, sempre tallonata dalla forza pubblica (…). Si improvvisa uno speakeraggio coi megafoni per spiegare alla gente accorsa numerosissima ciò che stava accadendo. E’ il primo incontro di massa tra stagionali e popolazione che dimostra di capire e impedisce di fatto, non ritirandosi dalla strada, una carica di celere” si legge nell’opuscolo “L’unico stagionale buono è lo stagionale morto”. 

A raffreddare il clima contribuisce, oltre all’inverno, il reclutamento di nuova manodopera dal Sud, in particolare dal Salento. Nel 1980 sono almeno in 600 a partire da Melissano, Racale, Taviano, Ugento, Alliste per raccogliere la frutta nel saluzzese, lavorando senza contratto, con paghe da fame e orari massacranti, costretti dai padroni a dormire in celle sottoterra. Uno sfruttamento lavorativo così spudorato e perfettamente integrato all’organizzazione di un comparto ortofrutticolo dove i profitti si accentrato sempre più, da non aver bisogno di essere in alcun modo celato, tanto da finire anche negli atti parlamentari, dove si legge che gli imprenditori di Saluzzo “approfittando di determinate condizioni di disagio di lavoratori che hanno percorso più di mille chilometri alla ricerca di un posto di lavoro, pensano di poterli sfruttare e maltrattare impunemente”. La produzione capitalistica della frutta funziona così, perché solo così può funzionare. 


Da allora è trascorso qualche lustro, Saluzzo e i 23 “Comuni della frutta” sono oggi il terzo polo frutticolo nazionale, filari di monocolture intensive si perdono su oltre 15.000 ettari di terreno, dove lavorano oltre 12.000 stagionali, le aziende si spartiscono un fatturato dichiarato da 400 milioni di euro l’anno. Numeri da capogiro, alla base della ricchezza di questo opulento lembo di terra ai piedi del Monviso, derivano da una radicale riorganizzazione della produzione da parte dei capitani di ventura locali, che accorpando le terre in poche famiglie, investendo in nuove tecnologie e in un complesso sistema logistico, hanno caparbiamente cavalcato le crisi e le trasformazioni del mercato.

A partire dal decennio scorso, quando faticosamente si sono costruiti alcuni tentativi di lotta, Saluzzo è salita agli onori delle cronache con il tanto facile quanto infelice slogan di “Rosarno del Nord”. Come spesso accade in questi casi, gli avvoltoi non hanno tardato a manifestarsi: promosse da enti o singoli più o meno profittevoli, si sono moltiplicate pubblicazioni, statistiche, opuscoli e financo documentari d’autore (senonché uno degli autori ha poi finito per occuparsi del marketing delle stesse aziende agricole). Si è alimentato un voyerismo ormai quasi morboso nei confronti della parte più visibile della manodopera stagionale, speculare alla crescita del business dell’accoglienza, che non si preoccupa di intaccare realmente l’organizzazione della produzione responsabile dello sfruttamento, ma anzi di fatto ne beneficia in termini di visibilità e talvolta carriera, nel gioco perverso di una comoda critica ormai ridotta a estetica della marginalità.

Dal 1990 ad oggi nel saluzzese gli ettari a coltura sono rimasti gli stessi, ma le aziende sono meno della metà. Si sviluppa innanzitutto un movimento cooperativo agricolo a dir poco “sui generis”, costituito da pochi soci uniti da legami familiari, volto ad ottenere vantaggi fiscali ed economici legati alla proprietà di magazzini, impianti di conservazione e macchinari. Le piccole imprese tendono progressivamente a scomparire in un meccanismo concorrenziale basato su contenimento dei costi e aumento della produttività, il mercato estero inizia ad avere un peso notevole, cambiano le colture – aumenta il melo, diminuisce il pesco, si diffondono i piccoli frutti – e con esse la stagione della raccolta – che si prolunga da fine primavera fino alla fine dell’inverno. Si sviluppa una rigida economia di filiera, in cui il principale acquirente finale è la Grande Distribuzione Organizzata. Se fino alla metà degli anni Ottanta erano i commercianti privati arrivati dall’Emilia Romagna ad acquistare direttamente dalle aziende la frutta, il cui prezzo era fissato prima della raccolta, oggi il valore è infatti unilateralmente determinato a valle dai grandi marchi della GDO, che fino all’anno scorso ricorrevano ad un sistema di aste a doppio ribasso per ingrossare ulteriormente i guadagni. A livello locale, in ogni caso, fin dalla metà degli anni Novanta un tassello fondamentale nella catena del valore è svolto dall’intermediazione delle Organizzazioni di Produttori dove confluisce tutta la frutta delle aziende affiliate, che viene conservata nei magazzini di stoccaggio e poi rivenduta: il valore della produzione è concentrato per l’81% in quattro OP. Il modo di produzione capitalistico, a cui i grandi terrieri locali si sono tenacemente votati portando con sé tutti gli altri più piccoli, premia dunque la progressiva concentrazione di terre, tecnologie, capitali e determina che il profitto si ottenga espropriando chi sta più in basso nella filiera, fino all’ultimo anello, i lavoratori stagionali. Lo sradicamento dell’agricoltura e della cultura contadina è giunto a compimento.

L’economia frutticola saluzzese, come altrove, è un sistema che si tiene organicamente insieme, dove ciascuno a vari livelli fa la sua parte per garantire la produzione di ricchezza, imprenditori, istituzioni, forze dell’ordine e cooperative. É questa pax progressista, con i suoi magazzini ben visibili tra i filari, che va colpita, quella che dopo 15 anni di persone che dormono in strada, di morti investiti in bicicletta, di paghe sotto i 4 euro e turni di 12 ore, di suv che caricano i “moru” come bestiame, permette oggi al Sindaco Calderoni di vendere Saluzzo come modello di accoglienza. Lo sfruttamento intensivo del lavoro stagionale non è una eccezione recente, né un impersonale problema di collocamento da riformare attraverso mediazioni che forniscano maggiori garanzie ai lavoratori. Come la storia insegna, la presenza di manodopera raminga, senza casa, senza documenti, da chiamare alla bisogna per pochi spicci e far lavorare per più turni fino allo sfinimento è semplicemente l’opportunità ideale per far funzionare questa moderna economia.

Se poi ci scappa il morto, come Moussa Dembelè, ucciso qualche settimana fa in una azienda di Revello in circostanze naturalmente non note, basta riconoscergli un documento postumo.  



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